L’articolo 572 cod. pen. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi) afferma che “chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente (….) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”.
L'articolo in questione punisce una serie diverse di condotte, variamente atteggiabili, non necessariamente eseguite nell’ambito della famiglia, perché configurabili anche in relazioni di altro genere, che presentino comunque il carattere della stabilità.
Il reato in questione si configura anche una volta cessata la convivenza, poiché i doveri di rispetto reciproco, di assistenza e solidarietà che nascono dal rapporto coniugale, nonché i vincoli nascenti dalla filiazione, continuano a permanere (così Cass. n. 33882/ 2014).
Il reato di maltrattamenti in famiglia configura dunque un’ipotesi di reato necessariamente abituale, costituito cioè da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, reiterati nel tempo. Si tratta in sostanza di fatti singolarmente lesivi dell'integrità fisica o psichica del soggetto passivo, i quali non sempre, singolarmente considerati, configurano ipotesi di reato, ma che però, valutati nel loro complesso, integrano una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa (così Cass. Sez. III, 16 maggio 2007 n. 22850).
Non integra infatti il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall'imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio (così Cass. pen., sez. VI, 22 dicembre 2010, n. 45037)
Un singolo episodio di violenza potrà pertanto integrare il diverso e più lieve reato di violenza privata, ma non certo quello di maltrattamenti in famiglia.
Ne consegue dunque che il dolo che caratterizza il reato di maltrattamenti in famiglia è generico, perché non è necessario che il soggetto attivo persegua un fine particolare per maltrattare la vittima, bastando “la coscienza e la volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva” (così Cass. Sez. VI, n. 41142/2010,) ma unitario, essendo l'intenzione criminosa dell'agente l’elemento che unifica e fa da collante a tutti i singoli atti vessatori» (in tal senso Cass. n. 1417/2010).
Il reato di maltrattamenti comprende tutte quelle azioni, anche prive di un conseguente danno vero e proprio, che possono arrecare sofferenze sia fisiche che morali, con intenzione dell’agente di umiliare e sopraffare la vittima: si va così dalle percosse e minacce, agli atti di scherno, di disprezzo, di umiliazione, di privazione ecc..
Bisogna chiarire che la stessa si differenzia nettamente da quella di stalking (art. 612-bis c.p.) essendo diversa l’oggettività giuridica delle due fattispecie, così come i rispettivi soggetti attivi e passivi, anche se in generale le condotte materiali dei reati appaiano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva.
Non c’è ancora alcun assorbimento, ed è invece configurabile il concorso formale, tra il delitto di maltrattamenti in famiglia ed altri reati qualora le rispettive fattispecie incriminatrici siano poste a tutela di beni giuridici diversi.
Ciò può avvenire nel caso in cui, ad esempio, oltre ai maltrattamenti sia posta in essere anche una violenza sessuale (così Cass. pen., sez. III, 19 settembre 2008, n. 35910; Cass. pen., sez. III, 1 luglio 2008, n. 26165) o addirittura una riduzione in schiavitù della vittima (Cass. pen., sez. I, 25 maggio 2006, n. 18447).
Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un "ruolo" nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di "autorità" o di particolare "affidamento" nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall'art. 572 c.p. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte). Di conseguenza il reato può essere commesso soltanto in pregiudizio di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate; il reato di atti persecutori, invece, è un reato contro la persona ed, in particolare, contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque, con atti di minaccia o molestia "reiterati", e che non presuppone l'esistenza di specifiche interrelazioni soggettive.
In varie decisioni la Corte ha poi configurato il reato di maltrattamenti anche al di fuori della famiglia legittima, nella c.d. “famiglia di fatto”, in quel rapporto comunque di stabile convivenza suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza (Cass. pen., sez. VI, 22 maggio 2008, n. 20647 ( 29 gennaio 2008); Cass. pen., sez. VI, 31 maggio 2007, G., in 2008, 320; Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 2005, Sciacchitano, 2006, 1254; Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 1993, Gelati, in 1994, 90 e Cass. pen., sez. VI, 18 maggio 1990, Nesti, 1991).
Per quanto riguarda infine i maltrattamenti nei confronti dei figli minori, viene esclusa l’esistenza del reato meno grave di abuso di mezzi di correzione, quando la condotta posta in essere esorbiti dai limiti di quella che solo occasionalmente ed in casi estremi può essere tollerata come mezzo di correzione.
Così si è stabilito che, mentre non possono ritenersi preclusi quegli atti, di minima valenza fisica o morale che risultino necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolvente, integra la fattispecie criminosa in questione l'uso in funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che trasmodi nell'abuso sia in ragione dell'arbitrarietà o intempestività della sua applicazione sia in ragione dell'eccesso nella misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza (così Cass. pen., sez. VI, 26 marzo 1998, Paglia, in 1999, 383).
Con riguardo ai bambini, il termine “correzione” va dunque assunto come sinonimo di “educazione”, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi.
Così ad esempio il comportamento del padre che sottoponga la figlia minore ad un regime di prevaricazione e violenza, tale da rendere intollerabili le condizioni di vita, impedendole, come nel caso di specie, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o a fare la spesa, configura il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (art. 572 c.p.) e non quello meno grave di abuso di mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) che presuppone, come detto, un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi (in tal senso Cass. pen., sez. VI, 12 settembre 2007, n. 34460).
Configura il delitto di maltrattamenti previsto dall'art. 572 c.p. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accudirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l'elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto si tratta infatti di una condotta lesiva dell'integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l'affidamento (Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 3419).
Posto ciò. in giurisprudenza si è riconosciuto il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. nei seguenti casi:
1) anche nei confronti dei figli, nella condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (Cass. pen., sez. V, 22 novembre 2010, n. 41142):
2) nella condotta di colui che, incaricato di prestare assistenza ad una persona anziana, abbandoni quest'ultima senza cure ed assistenza per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute (Cass. pen., sez. V, 20 luglio 2010, n. 28509)
3) nella condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accudirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l'elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi (Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 3419);
4) nella condotta di maltrattamenti in danno di una persona legata all'autore della condotta da una relazione sentimentale che abbia comportato una assidua frequentazione della di lei abitazione, trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Cass. pen., sez. V, 30 giugno 2010, n. 24688);
5) nella condotta dettata da motivi religiosi, non potendo ritenersi che l'adesione ad un credo, che non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, giustifichi i maltrattamenti in danno del coniuge (Cass. pen., sez. VI, 12 agosto 2009, n. 32824; Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 46300).
6) nella condotta violenta del soggetto indirizzato contro l'amante anziché contro la propria moglie con cui lo stesso continui a convivere: anche in questo caso è stato tutelato il rapporto “duraturo” con l’amante simile in qualche modo, secondo la Corte, ad una relazione familiare (Cass. 1.03.2011, n. 7929);
6) nella condotta di chi costringe la moglie a sopportare le corna in casa imponendo alla stessa l'accettazione di tale stato di fatto con gravi minacce (Cass. 16543/2017).
Merita da ultimo menzione una sentenza della Suprema Corte, che ha sollevato non poche critiche, con cui ai fini del reato di cui all’art. 572 c.p. l’attenzione viene spostata anche sulla condizione della vittima del reato.
Ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 2 luglio 2010, n. 25138 che “le vessazioni e le percosse del marito non consistono in maltrattamenti penalmente rilevanti se la donna ha un carattere forte.”
Non c’è dunque il reato di cui all’art. 572 c.p. (ma possono naturalmente ricorrere altre fattispecie criminose minori) se la vittima ha un carattere tale da resistere alle continue e ripetute offese o percosse poste in essere dall’altra parte.
Il soggetto, nel caso di specie, condannato in primo ed in secondo grado per avere maltrattato la moglie con continue ingiurie, offese umilianti, minacce e percosse, si è visto assolto innanzi alla Cassazione che ha evidenziato come non si possa parlare di vera e propria “sopraffazione” della moglie, nei confronti del marito violento, nel caso in cui la vittima possieda un carattere forte, e non sia per nulla intimorita dalla condotta dell’uomo.
L’orientamento espresso con la summenzionata sentenza stupisce non poco perché la stessa Corte, negli anni passati, come detto, ha sempre cercato di salvaguardare in ogni modo non solo la famiglia, nel senso più lato di tale accezione, ma anche e soprattutto l'interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento del rapporto fondato su vincoli familiari.
Tale sentenza si pone invece, e decisamente, in controtendenza rispetto all’orientamento repressivo seguito sino ad ora dalla Corte di Cassazione.
E’ vero che ogni sentenza fa storia a sé e va debitamente considerata la vicenda da cui scaturisce, ma è altrettanto vero che un precedente come questo creato dalla Corte di Cassazione può essere pericoloso e fuorviante, e spianare la strada ai violenti (sia mogli che mariti) in situazioni già difficili da denunciare e da dimostrare in giudizio.