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Il danno non patrimoniale

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Il “danno” è la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile dell’individuo tutelato dall’ordinamento giuridico.

La tradizionale distinzione che si opera, in seno al concetto di “danno”, è quella tra danno patrimoniale, ovvero quel danno che tocca, direttamente o indirettamente il patrimonio dell’individuo, e il danno non patrimoniale, ovvero quel danno che tocca la persona, senza incidere direttamente nel  patrimonio del danneggiato.

Nell’ambito poi del danno patrimoniale si suole distinguere tra “danno emergente”, rappresentato da una vera e propria diminuzione del patrimonio, e “lucro cessante”, inteso come mancato guadagno (si pensi ad un musicista che  a causa di un incidente non può partecipare a un concerto che gli avrebbe fatto guadagnare una certa somma: tale somma è il c.d. il lucro cessante): mentre il danno emergente è un danno concreto ed attuale, il lucro cessante rappresenta invece un danno futuro ed eventuale. Il concetto di patrimonio da pren­dere in considerazione ai fini della stima del danno non si identifica con quello di cui all’art. 2740 cod. civ., ma è più ampio, comprenden­do non solo i beni in senso stretto, materiali o immateriali, ma altresì le opportunità o chances, perse a cagione dell’evento dannoso.

Inoltre il risarcimento del danno patrimoniale deve in ogni caso fondar­si sul­la utilitas che il danneg­giato ricavava dal bene danneggiato, a prescindere dai sentimenti di affetto che potevano legarlo a quella determinata cosa.

Venendo specificatamente al danno non patrimoniale, cioè al danno non immediatamente suscettibile di valutazione economica causato da un certo evento (incidente automobilistico, colpo inferto durante un litigio, infortunio fortuito ecc. ), è bene tenere a mente che secondo il disposto dell’ art. 2059 Cod. civ., “ il  danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

Prima del 2003 si riteneva che doveva essere risarcito il danno non patrimoniale solo quando il medesimo  derivava da reato ( l’art. 185 Cod. pen. statuisce infatti, al 2° comma,  che “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui”).

In seguito all’orientamento della Cassazione espresso con le sentenze 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975, si conferma quanto già affermato da anni dalla giurisprudenza di legittimità, e cioè che il danno non patrimoniale, oltre ad essere risarcibile nei  casi previsti dalla legge, ovvero nelle ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso, come nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato, deve essere anche risarcito quando la risarcibilità, pur non essendo espressamente prevista, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., per avere cioè il fatto illecito vulnerato in modo grave “un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione(Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26973).

Quanto al caso del reato, bisogna notare per inciso che la stessa Cassazione, al riguardo, ha statuito  la non risarcibilità del danno non patrimoniale “di lieve entità” anche se provocato da un reato (Cass. Sezioni unite n. 3727/ 2016).

Dunque non è risarcibile qualsiasi danno derivato da reato, in quanto  non v'è diritto per il quale non operi la regola del bilanciamento con il principio di solidarietà, con la conseguenza che, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva.

Le pronunce delle Sezioni unite, inoltre,  inquadrano il danno morale come aspetto del danno non patrimoniale e negano ogni sua autonomia ontologica, affermando che la liquidazione deve essere sganciata da quanto riconosciuto a titolo di danno biologico.

In definitiva  la giurisprudenza di legittimità, pur sottolineando la necessità di evitare duplicazioni risarcitorie del danno non patrimoniale, ha ribadito l’esistenza del danno morale, ne ha confermato il ristoro pur in presenza di semplici presunzioni ed ha sganciato la sua risarcibilità dall’accertamento incidentale della presenza di un reato.

Per le sentenze gemelle del novembre 2008 anche il danno esistenziale non può essere inteso come categoria autonoma.

Esso consiste in un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma permanente, oggettivamente accertabile e provocato sul fare areddittuale del soggetto, il quale altera le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Al pari del danno morale, dunque, il danno esistenziale è stato collocato sistematicamente nella più ampia categoria unitaria del danno non patrimoniale e ne è stata delimitata in termini ristretti l’area di applicazione. Infatti  non possono essere risarcibili i danni “bagatellari” riconosciuti dalla giurisprudenza di merito, in particolare dai Giudici di Pace. Non sono meritevoli di tutela risarcitoria non patrimoniale  i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie o varie insoddisfazioni relative ai più disparati aspetti della vita quotidiana e non esiste un diritto risarcibile ad essere felici ed alla qualità della vita. In sostanza il pregiudizio di tipo esistenziale è riconosciuto solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno;  senza lesione di diritti fondamentali non c’è tutela, con l’ulteriore filtro della serietà e gravità della lesione e, per quanto concerne l’onere probatorio, si rinvia ancora alla prova documentale, testimoniale o per presunzioni.

Il danno morale attiene alla sfera dell’emotività ed il pregiudizio esistenziale concerne il modo di estrinsecarsi. Una volta liquidato il danno morale anche sotto il profilo relazionale, vale dire anche come esistenziale nei termini sopra precisati, non può aggiungersi alla liquidazione del morale una ulteriore liquidazione del danno esistenziale.

Pertanto per la Corte, il danno non patrimoniale va risarcito integralmente, ma senza duplicazioni, dovendosi ritenere sbagliata la prassi di liquidare in caso di lesioni della persona sia il danno morale sia quello biologico, come pure quella di liquidare in caso di morte di un familiare sia il danno morale, sia quello da perdita del rapporto parentale, poiché gli uni e gli altri costituiscono pregiudizi del medesimo tipo.

Vediamo la fattispecie concreta su cui si sono trovate a decidere le Sezioni Unite. Gli eredi di una persona deceduta a seguito di un incidente stradale, dove il loro dante causa si trovava in una delle due vetture come trasportato, hanno convenuto davanti al Tribunale di Roma la persona ritenuta responsabile dell’evento e la Compagnia Assicuratrice  per sentirli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

Il Tribunale di Roma ha dichiarato l'esclusiva responsabilità del convenuto e ha condannato la Compagnia Assicuratrice al risarcimento dei danni. Gli attori hanno proposto appello avverso tale sentenza chiedendo che i danni fossero liquidati in misura più elevata. La Compagnia ha invece chiesto la conferma della sentenza impugnata e, in ogni caso, il contenimento dei danni entro il limite del massimale. La Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato la predetta Compagnia al pagamento in favore degli attori di una somma ulteriore a titolo di danno morale e danno biologico sofferti dal defunto. Avverso la sentenza gli originari attori hanno proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi.

La terza sezione, rilevato che il ricorso investiva questioni di particolare importanza in relazione al c.d. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ponendo i quesiti sopra evidenziati.

Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

La Corte a Sezioni Unite parte dall’art.  2059 c.c. («Danni non patrimoniali»)  secondo cui, come sappiamo, “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”, e partendo da questo articolo fa un dettagliato excursus storico dell’istituto.

Afferma la Corte che all'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 del codice penale del 1930 e pertanto la giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 Cod. civ., si era consolidata nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuava il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte.

Afferma ancora la Corte che l'insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da varie sentenze visto che nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono tale affermazione, secondo la Corte, i seguenti argomenti: a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali ( si pensi ad esempio alla risarcibilità di danni non patrimoniali per violazioni della normativa sulla privacy ex art. 29, comma 9, L. n. 675/1996 oppure la risarcibilità dei medesimi danni ex art. 2 L. n. 89/2001 in caso di irragionevole durata del processo)  con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall'art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell'integrità psichica e fisica della persona; c) l'estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);d) l'esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perché in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perché il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

Fatte queste premesse le Sezioni Unite dichiarano di condividere e di fare propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828 del 2003 all'art. 2059 Cod. Civ. (v. supra), completandola però nei termini che seguono.

Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c.

L'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008).

Osserva però la Corte che l'art. 2059 c.c. è norma di rinvio ed il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimonialedunque l'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava, secondo la Corte, dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

Vediamo quali sono per la Corte tali norme: a) si tratta, in primo luogo, dell'art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (rileggiamo il testo: “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”);b) in secondo luogo  di  compromissioni di valori personali puniti da leggi ordinarie (danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie ex art. 2 L. n. 117/1998; impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali ex art. 29, comma 9, L. n. 675/1996; adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi ex art. 44, comma 7, D.L.vo n. 286/1998; mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo ex art. 2 L. n. 89/2001); c) in terzo luogo di  diritti costituzionali inviolabili. Qui la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 D.L.vo n. 209/2005, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006).

In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazioneall'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost.(sent. n. 25157/2008).

Fatta questa ulteriore premessa la Corte enuncia un primo fondamentale principioil danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, ovvero nelle ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso, come nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato, e quella in cui la risarcibilità, pur non essendo espressamente prevista, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione.

La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto. Sotto tale aspetto, osserva la Corte, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicitàperché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Detto questo si passa al secondo principio fondamentale che sconvolge e riqualifica tutto quanto precedentemente affermato in giurisprudenza in ordine al danno non patrimoniale: afferma infatti la Corte che il danno non patrimoniale, è una categoria ampia ed omnicomprensiva all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva. È, pertanto, scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il c.d. "danno morale soggettivo", inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell'unico ed unitario danno non patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante.

Dunque non più tre sottocategorie nell’ambito del danno non patrimoniale (danno biologico, danno morale e danno esistenziale) ma un unico aspetto (che comprende in sé il danno biologico, il danno morale e il danno esistenziale) che riceverà maggiore risarcimento secondo la maggiore lesione che ognuno dei tre sub aspetti avrà subito.

Pertanto la limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va secondo la Corte definitivamente superata.

La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, secondo le Sezioni Unite, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l'art. 2059 c.c. né l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva ad esempio quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

Per riassumere questi due primi principi sciorinati dalle Sezioni Unite si può concludere che fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere cioè  una ingiustizia costituzionalmente qualificata. In tali ipotesi, però, non emergono, nell'ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale. È solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo negli artt. 138 e 139 D.L.vo n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di “danno da perdita del rapporto parentale”. In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza. n. 233/2003 della Corte costituzionale. Le menzionate sentenze, secondo le Sezioni Unite, avevano avuto d’altra parte cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (v. sent. n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003).

Terzo fondamentale enunciato della Corte: non è ammissibile nel nostro ordinamento un danno "esistenziale", inteso quale la perdita del fare a-reddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, costituisce né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 c.c., e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato. Quando, per contro, un pregiudizio del tipo definito in dottrina "esistenziale" sia causato da condotte che non siano lesive di specifici diritti della persona costituzionalmente garantiti, esso sarà irrisarcibile, giusta la limitazione di cui all'art. 2059 c.c.

Dunque le Sezioni Unite, con tale principio, intonano definitivamente il de profundis per il c.d. “danno esistenziale”.

Vediamo come argomenta il tutto la Corte.Secondo la Corte tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione «danno esistenziale».Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perché non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica.  Il rimprovero che rivolge la Corte a tale tipo di interpretazione sta nel fatto che già  nel quadro dell'art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione a risarcimento. In altre parole, secondo la Corte, non essendo mai stato individuato dai giudici di merito l’interesse che era stato leso era assurdo riconoscere risarcimento ad un tipo di danno genericamente indicato come “esistenziale.”

Da qui – secondo la Corte – specialmente i giudici di pace avrebbero fornito prospettazioni fantasiose, e  a volte addirittura risibili, sui pregiudizi suscettibili di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black outelettrico.

In tal modo, secondo la Corte, si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia.  E conclude sul punto la Corte che se questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale, dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828 del 2003 (v, supra) si è fissato il giusto e condivisibile principio secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona.

La tutela risarcitoria sarà ora riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955), e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso.

In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955), e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c.

La Corte indica alcuni esempi che attengono all'esistenza della persona che per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come “esistenziali” o come “estetici”, senza che tuttavia possano configurarsi, come detto,  autonome categoria di danno:

a) lo sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

b) l'impossibilità di rapporti sessuali  dell'illecito che, cagionando un danno ad una persona coniugata, è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio. Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

c) il pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del lavoratore colpito da demansionamento o dequalificazione che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. (in tal senso si sono  espresse Cass. n. 6572/2006, Cass. n. 4260/2007, Cass. n.  5221/2007, Cass. n.  11278/2007 e Cass. n. 26561/2007).Qui vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono per le Sezioni Unite,  pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di merito. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale. In tal senso, per difetto dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato per la Corte: a) il risarcimento ad una persona che si affermava «stressata» per effetto dell'istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (Cass. n. 3284/2008); b) e per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (Cass. n. 14846/2007).

Quarto principionon sono risarcibili i danni non patrimoniali cc.dd. "bagatellari", ossia quelli futili od irrisori, ovvero causati da condotte prive del requisito della gravità. Pertanto, la liquidazione, specie nei giudizi decisi dal giudice di pace secondo equità, di danni non patrimoniali non gravi o causati da offese non serie, è censurabile in sede di gravame per violazione di un principio informatore della materia.

Afferma la Corte che il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. “liti bagatellari”. Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futileirrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

Afferma la Corte che in questi casi  deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c.

La gravità dell'offesa costituisce dunque, un requisito ulteriore per l'ammissione al risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.

Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.). Entrambi i requisiti devono essere accertati seconda la Corte dal giudice, secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002). I limiti fissati dall'art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità. La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta dalle  Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).

Quinto principioanche dall'inadempimento di una obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale, che sarà risarcibile nei casi espressamente previsti dalla legge, ovvero quando l'inadempimento abbia leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione.

Secondo le Sezioni Unite l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale.

Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

Anche in questo caso la Corte fa degli esempi:

a) vengono in considerazione, anzitutto, i c.d. “contratti di protezione”, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali. In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza della Cassazione che ha avuto modo di inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (Cass. n. 589/1999), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (Cass. n. 11503/1003; Cass. n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (Cass. n. 6735/2002, Cass. n. 14488/2004 e Cass. n. 20320/2005). I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32, comma 1, Cost.), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (Cass. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all'autodeterminazione (artt. 32, comma 2, e 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (Cass. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell'obbligo del consenso informato (Cass. n. 544/2006).

b) costituisce “contratto di protezione” anche quello che intercorre tra l'allievo e l'istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (Cass. S.U. n. 9346/2002; Cass. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione.

c)  vengono in considerazione anche i rapporti di lavoro, come abbiamo visto, in quanto gli interessi dei lavoratori sono stati elevati, dalla Costituzione,  a diritti inviolabili, con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.

d) viene  in considerazione anche il  contratto di trasporto, dove la tutela dell'integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all'ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all'ipotesi dell'illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

e) viene in considerazione l’inadempimento contrattuale: l'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona.

Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere cosi la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti. D'altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall'inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l'obbligazione è sorta.

C’è poi da dire, per concludere sul punto, che il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell'art. 1229, comma 2, c.c. (“È nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico”).

E varranno le specifiche regole del settore circa l'onere della prova (come precisati da Cass. Sez. Un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

Sesto principioIl danno non patrimoniale va risarcito integralmente, ma senza duplicazioni: deve, pertanto, ritenersi sbagliata la prassi di liquidare in caso di lesioni della persona sia il danno morale sia quello biologico; come pure quella di liquidare nel caso di morte di un familiare sia il danno morale, sia quello da perdita del rapporto parentale: gli uni e gli altri costituiscono infatti pregiudizi del medesimo tipo.

Per la Corte viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che negava, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (Cass. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (Cass. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

Settimo principiola prova del danno non patrimoniale può essere fornita anche per presunzioni semplici, fermo restando però l'onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio.

Sul punto premette innanzi tutto la Corte che è compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

Liquidazione del danno non patrimoniale

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5243/2014, ha ritenuto che possano costituire un valido criterio di riferimento, ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., per le macrolesioni (superiori al 10%), le tabelle per la liquidazione del danno biologico elaborate dal Tribunale di Milano. Per le microinvalidità, si fa riferimento alla disciplina normativa.

In sostanza la Corte afferma che, dovendosi di regola liquidare il danno non patrimoniale in via equitativa, equità non è arbitrio e non vuol dire solo regola del caso concreto, ma anche parità di trattamento e, dunque, solo un’uniformità pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza.

Il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, dovrà procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Il danno non patrimoniale è da liquidarsi sulla scorta di una personalizzazione basata sull’esperienza di vita della vittima.

Già le SS.UU. con la sentenza n. 26972/2008 ha iniziato a parlare di personalizzazione del danno, nel caso di liquidazione del danno per lesione del diritto alla salute, la quale deve tener conto della maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento.

Successivamente la stesa Corte ha rilevato l’incongruità delle motivazioni basate solo ed esclusivamente sulle liquidazioni tabellari del danno biologico poiché dette tabelle non considerano tutte le componenti del danno biologico (Cass. n. 12408/2011).

Ancora, con la sentenza n. 4243/2014 la Suprema Corte ha ribadito che il risarcimento alla persona deve essere integrale, essendo compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio.

Da ultimo la Corte, con la  sentenza 21/09/2017 n° 21939, ha affermato
che “con riguardo alla liquidazione del danno non patrimoniale, ai fini della c.d. personalizzazione del danno forfettariamente individuato attraverso meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento , spetta al giudice far emergere e valorizzare, le specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame”.

Le tabelle previste contengono infatti  la quantificazione delle conseguenze “ordinarie” previste dalla forfetizzazione del danno non patrimoniale; spetta al giudice aggiungere il quid pluris dovuto per l’effettiva consistenza del pregiudizio subito.

La prova del danno non patrimoniale

La Corte, in tema probatorio, nega la circostanza che  nel caso di lesione di valori della persona il danno possa essere  in re ipsa: ciò vuol dire che da oggi il danno dovrà essere sempre allegato, richiesto e provato.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 D.L.vo n. 209/2005) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Anzi con le sentenze in esame la Corte afferma che è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico; del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimonialedocumentalepresuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, Cass. n. 9834/2002).

Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

Qualsiasi danno (anche il  vecchio pretium doloris) è da oggi danno conseguenza e va quindi allegato: bisognerà quindi dimostrare che il soggetto  ha sofferto molto, che quel tipo di malattia influisce in certo modo sulla vita e così via. Detto così sembra davvero una probatio diabolica: ma questo è quanto stabilito sul danno patrimoniale dalle Sezioni Unite e con questi principi dobbiamo iniziare a fare i conti. La sensazione è quella di essere tornati, dopo tanti anni di contributi dottrinari e giurisprudenziali, ad un criterio equitativo puro, in cui ciascun giudice, a seconda della propria sensibilità, liquida cifre diverse.

 

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